La Dea, in tutte le sue infinite sfaccettature e con suoi numerosi nomi che sfuggono al tempo e alla memoria, è il Mistero incarnato.

Esistono però Divinità più misteriose di altre, che sembrano restare avvolte dalle nebbie della storia e per le quali, tal volta, nemmeno il tempo del mito, che è di per sé stesso già più rarefatto rispetto al tempo storico, ci viene in soccorso.

Sono Divinità che sembra abbiano quasi scelto consapevolmente di voler restare nell’Ombra, in quello spazio di soglia tra luce e oscurità dove la vista può al massimo scorgere miraggi, bagliori o impressioni di queste Entità liminali.

Esistono Divinità che sono arrivate a noi racchiuse e immobilizzate in un bozzolo.

Sta a noi cercare di dissipare le nebbie, far luce nell’oscurità, cercare di agevolare in qualche modo quel processo di metamorfosi che possa aiutare il Divino a liberarsi della crisalide e finalmente sfarfallare!
Sta a noi sollevare il velo e s-velare la Dea!

Nel farlo dobbiamo tenere a mente che questo processo funziona a doppio senso: non possiamo infatti s-velare la Dea se prima non combattiamo quello stato di smemoratezza, di sonnambulismo nel quale siamo noi avviluppati.

In parole povere: non possiamo ambire a s-velare il Divino se prima non ri-veliamo a noi stessi chi siamo, “dove siamo e perché siamo qui” (n.d.a. nella Tradizione di Ara queste sono le parole finali con cui si sigilla il Cerchio Magico, un’affermazione semplice ma potente).

Nel mio viaggio di ri-velazione di me a me stesso e al Mondo, mi sono imbattuto più volte in una di queste Dee “più” misteriose delle altre. Una Dea che non solo resta sospesa in quella zona poco definita alla vista, ma che rifugge anche la dimensione acustica e sonora.

Una Dea silente e che allo stesso tempo incarna il Silenzio.
Una Dea che tace.
Una Dea muta.
La Dea Tacita, o Tacita Muta.

La Dea Misteriosa che più delle altre, come in una sorta di contrappasso, per essere s-velata ha bisogno di parole che la raccontino.

Ma ricordate che è solo nella profonda sacralità del silenzio che potrete invece incontrarla.

LARA: COLEI CHE NON TIENE A FRENO LA LINGUA!

Il mito ovidiano ci racconta di come il fiume Almone, affluente del Tevere, avesse una figlia, una naiade di nome Lara, Larunda o Lala (dal greco λαλέω, “parlare, chiacchierare”).

Lara era rappresentazione di quello che, per gli uomini di allora (ma anche per quelli di oggi), era considerato il più grande difetto del genere femminile: l’essere dotato di parola!

Alle donne il silenzio reca grazia” sentenziava Sofocle e tacere, per le donne, non era solo una virtù, ma era anche un dovere imposto.

Dovere a cui Lara non prestò mai attenzione e, ovviamente, proprio per questo dovette pagare un prezzo altissimo.

Come nella più classica delle favole infatti, più volte il padre aveva messo in guardia la propria figlia consigliandole di correggere il proprio “difetto di donna” (ci troviamo, ovviamente davanti all’ennesimo mito in cui la dimensione concorrenziale tra i generi non è affatto celata, anzi!).

“Figlia frena la lingua”, le ripeteva il vecchio Almone.

Ma Lara, come tutte le figlie capricciose, non ascoltava e parlava, parlava, parlava… finché, un bel giorno, venuta a conoscenza delle mire di Giove che aveva messo gli occhi sulla bella Giuturna, ninfa delle fonti, non solo mise in guardia la sorella rivelandole il piano di Giove per cercare di possederla in modo che lei possa sfuggirle, ma raccontò anche tutto alla gelosa Giunone!

In questo modo, guidata dall’imprudenza della sua lingua, Lara attirò su di sé le ire e la furia vendicativa del Padre di tutti gli Dei che la punì mozzandole la lingua e condannandola a un silenzio eterno.

NINFA SILENZIOSA DELLA PALUDE INFERA

Ma il destino della Naiade, che a questo punto della storia, come in un qualsiasi rituale iniziatico in cui si subisce una mutilazione, si trova in quella che Van Gennepp chiama fase liminare senza più il suo nome e la sua identità (il suo nomen omen è stato a tutti gli effetti reciso con la sua lingua, privando la fanciulla del suo “essere”), è tutt’altro che compiuto.

Giove chiamò Mercurio, Dio Psicopompo che viaggia tra i Mondi, colui che recapitò l’ordine di liberare la bella Proserpina e, in un viaggio al contrario rispetto a quello compiuto dalla sposa di Plutone quando risale sulla Terra, ordinò di condurre la Naiade nell’Averno, il luogo del Silenzio per eccellenza.

Ha inizio così la catabasi della Naiade, che scortata da Mercurio, che è anche trickester e ingannatore, si incamminò per la sua discesa infera che avrebbe segnato il suo corpo di nuove ferite, come Inanna spogliata dei suoi Me e lasciata appesa in attesa della morte.

Ma non è la morte ad attendere la Naiade…

IL GRIDO MUTO DELLA VIOLENZA

Chissà se consapevole di ciò che l’avrebbe attesa, la Naiade non avrebbe preferito la morte come Inanna. Forse fine più dolce le sarebbe sembrata, rispetto a ciò che le è toccato.

Durante il tragitto verso gli Inferi, infatti, Mercurio, che è comunque Dio maschio, venne colto da una passione bestiale per la fanciulla che manifestò con lo stupro. Tremenda è la descrizione della violenza carnale che ci offre Ovidio, che con una manciata di parole e senza descrivere l’atto in sé, ci restituisce la tragicità e il dramma di questo terribile momento:

“Le usa violenza, lei implora con lo sguardo invece di parole, e cerca invano di parlare con le labbra mute”.

Alla fanciulla non è concesso nemmeno di poter più gridare per l’orrore e per l’oltraggio, e il suo grido muto, come accade sempre con il mito, si sublimerà nel tempo e nella storia diventando drammatico archetipo e triste modello di tutti quei gridi muti emessi ancora oggi dalle donne che subiscono questo scempio rimasto un atto turpe e orrendo, oggi come ieri.

LA TRISTE STORIA DI FILOMELA

Una piccola digressione a questo punto mi sembra necessaria, per rendere onore e far uscire dalle nebbie della smemoratezza, un’altra figura di donna che aveva incontrato lo stesso triste destino di Lara/Naiade.

Il mito ci racconta di un altro grido muto, anche se gli eventi in questo caso hanno una successione diversa.

Nella vicenda di Filomela, la mutilazione della lingua avviene dopo lo stupro da parte del cognato Tireo, che preoccupato dal fatto che la ragazza potesse raccontare tutto a Procne, sua moglie e sorella di Filomela, decise di tagliarle la lingua per aver salva la pelle.

Ma Filomela porta dentro di sé l’arte più sacra e magica che le Dee Antiche hanno tramandato e insegnato alle donne: la tessitura.

Come un’ingegnosa Penelope, Filomela tesse un messaggio per sua sorella Procne, su una tela che le fece prevenire.

Se Filomela incarna così il dolore muto, nel momento in cui scopre l’orrore dello stupro e della mutilazione della sorella da parte del marito, Procne incarna l’ira più cieca. In preda al furor che è inarrestabile, Procne uccide il figlio Iti e lo dà in pasto al marito, in segno di vendetta! Fuggì poi insieme alla sorella, ma quando Tereo comprese la natura del cibo si diede alla ricerca delle due sorelle, che per salvarsi invocarono l'aiuto dagli dei che ascoltarono le loro suppliche e, come spesso accade, attuarono un’operazione di metamorfosi trasformando: Procne in una rondine, Filomela in un usignolo e infine anche Tereo in un'upupa.

DA NAIADE A TACITA MUTA

La metamorfosi, il raggiungimento di un nuovo status e di una nuova condizione dell’essere, è lo step finale di ogni rito iniziatico. Se quindi la discesa infera di Lara/Naiade, con mutilazione e stupro, rappresentano la fase liminare del suo rito d’iniziazione, il sacrificio e la perdita, è tempo di vedere cosa resta alla fine di questo processo, terribile e doloroso, di metamorfosi.

In quale condizione ci viete restituita Lara/Naiade, dopo lo stupro?

La fanciulla senza nome, ci viene riconsegnata come Madre. La violenza di Mercurio infatti, lascia la ragazza incinta, ma quelli che nasceranno non saranno dei figli “normali”.

Lara/Naiade si trova ormai tra le Ombre, nel luogo dei Mani, e il suo grido muto l’ha a tutti gli effetti trasformata in Tacita Muta, con quello che sembra più un epiteto o un titolo, anziché un nome vero e proprio.

Tacita Muta: la Dea Silenziosa, Signora degli Inferi, Mater Dolorosa e Guardiana dei Morti.

Non stupisce quindi apprendere che dal ventre di Tacita, nacquero i Lari, divinità che vivevano ai crocicchi, vegliavano sui confini e sulle città, proteggendole (tuttavia, secondo altre fonti, madre dei Lari era invece la Dea Mania, divinità di cui ancor meno ci è pervenuto e di cui non si conosce praticamente nulla).

DAI FASTI DI OVIDIO

Riporto di seguito, il brano tratto dai Fasti di Ovidio, in cui si legge il mito che vi ho appena raccontato.

Fra di esse vi era una naiade di nome Lara; ma il suo antico nome – derivante da un difetto di pronuncia – era la prima sillaba ripetuta due volte. Spesso Almo le aveva detto: «figlia frena la lingua», ma lei non la frena e appena giunge al lago della sorella Giuturna, «fuggi le rive», dice, e riferisce le parole di Giove. Poi visita anche Giunone, e commiserando le spose, le dice: «tuo marito ama la naiade Giuturna». Giove s’infuria, le strappa la lingua che lei aveva usato senza moderazione, e chiama Mercurio. «Conduci costei fra i Mani – è luogo adatto ai silenziosi –; ninfa, certo, ma sarà ninfa della palude infera». Gli ordini di Giove si compiono. Un bosco accoglie i viandanti; si dice che allora il dio che la guidava si sia acceso di lei. Le usa violenza, lei implora con lo sguardo invece di parole, e cerca invano di parlare con le labbra mute. Rimane incinta e genera due gemelli, i Lari, che proteggono i crocicchi e in perpetuo vigilano sulla nostra città.

SORELLE DEL SILENZIO

Oltre a Filomela e Tacita Muta, esistono altri divinità del Silenzio che spesso si sono state sovrapposte, inglobate o sincretizzate proprio con la Dea Silenziosa.

Angerona: è la dea che l’iconografia classica ci consegna imbavagliata o con l’indice della mano destra posto davanti la bocca chiusa, in segno di richiesta di silenzio. Si pensa sia una sfaccettatura del silenzio di Tacita Muta. Considerata Dea del silenzio o dei piaceri, protettrice degli amori segreti, guaritrice dalle malattie cardiache, dal dolore e dalla tristezza. Ad Angerona spettava il compito di tenere segreto il nome della città, non consentendo ai nemici di conquistarla. Le sue feste, le Angeronalia, cadevano durante il Solstizio d’Inverno, la stagione del silenzio. Spesso Angerona viene confusa anche con la dea Voluptas, poiché nel tempio dedicato a questa Dea, si trovava una sua statua.

Acca Larenzia: tracciare la figura di Acca Larenzia non è operazione semplice, poiché il suo culto risalirebbe agli etruschi, per cui mi limiterò a sottolineare e riportare solo quegli aspetti che condivide con la Dea Tacita. Sembra che Acca Larenzia fosse denominata anche Mater Larum (o Lararum) o "Madre dei Lari". Il termine sanscrito “Akka” significa infatti proprio Madre. Speculazioni più tarde, dicono anche che il titolo di “Acca”, le venne conferito in riferimento al suo essere personificazione silenzio, poiché la letta “H” è la lettera muta. Ad Acca Larenzia, erano dedicate le festività dei Larentalia, che si tenevano il 23 dicembre, durante le quali si offrivano sacrifici ai Lares, ovvero agli spiriti benevoli degli antenati, il cui compito era di proteggere e benedire i nuclei familiari e le loro abitazioni dalle minacce esterne. Anche in questo caso la figura di Acca Larenzia, come Tacita Muta, viene identificata con una divinità ctonia, custode del mondo dei morti.

FERALIA: IL GIORNO DI TACITA MUTA

Per gli Antichi Romani, il mese di febbraio era un mese decisamente oscuro, dedicato a tutti quei rituali di purificazione, espiazione, fertilità che fanno parte della ritualità che segna la fine dell’anno (l’anno romano infatti, iniziava a marzo). Il mese di febbraio risentiva dell’influenza di Giuno Februata (la purificatrice), di Fauno Luperco e dei suoi rituali estatici dei Lupercalia, di Terminus, dio dei confini celebrato durante i Terminalia.

Ma il momento più importante cadeva proprio nel mezzo del mese di febbraio e durava ben 9 giorni, conferendo al mese di febbraio romano, un’atmosfera che noi potremmo definire novembrina. Mi riferisco ai 9 giorni delle festività conosciute come Parentalia, che andavano dal 13 al 21 febbraio, durante i quali si tenevano celebrazioni in onore degli Antenati e dei Defunti. Erano giorni in cui il silenzio prendeva diverse forme: i templi restavano chiusi, i matrimoni non venivano celebrati, i magistrati non potevano indossare la toga pretesta e si tenevano rituali di offerte e libagioni per i Morti.
L’ultimo giorno dei Parentalia, il 21 febbraio era conosciuto come Feralia, giorno che potremmo dire essere dedicato in particolare a Tacita Muta.

Il termine “Feralia”, ci dice Ovidio, è legato all'usanza di "portare" (in lingua latina: fero) doni ai morti. Nei Feralia infatti i cittadini romani recavano offerte alle tombe dei propri antenati defunti che consistevano nella consegna, sopra un vaso di argilla, di ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale, pane imbevuto nel vino e viole sciolte; erano permesse anche offerte supplementari, ma i morti erano placati solo con le offerte rituali.

Queste semplici offerte per i morti erano state introdotte nel Lazio forse da Enea, che aveva versato vino e violette sulla tomba di Anchise.

Ovidio narra che una volta in cui i Romani avevano trascurato di celebrare le Feralia perché impegnati in una guerra, gli spiriti dei defunti erano usciti dalle tombe, urlando e vagando per le strade rabbiosamente. Dopo questo episodio, erano stati prescritte cerimonie riparatrici e le orribili manifestazioni errano cessate.

IL RITUALE DI TACITA MUTA

Sempre grazie a Ovidio, sappiamo che durante i Feralia, il culto di Tacita Muta si manifestava in una liturgia annuale dal forte carattere infero e dalla gestualità ctonia, di chiara matrice magico-sacrale.
Alcuni dicono che si tratti di un rituale per placare le anime dei Defunti, altri di una potente maledizione per mettere a tacere pettegolezzi e malelingue. Comunque sia, sappiamo che era usanza svolgere questo rito potente proprio nel giorno di Tacita Muta e io ho deciso di lasciare alle parole dello stesso Ovidio la descrizione del rito:

“Guardate quell’anziana vecchietta, seduta in mezzo alle fanciulle: celebra un sacrificio in onore di Tacita (lei però non si può dire che taccia). Con tre dita depone tre grani di incenso sotto la soglia, là dove un piccolo topo si è scavato un passaggio segreto. Con dello scuro piombo unisce dei fili a cui ha praticato un incantesimo e mastica nella bocca sette fave nere. Poi cuce la bocca a una menola [un piccolo pesce n.d.a.], ne cosparge la testa di pece, la trafigge con un ago di bronzo e la arrostisce nel fuoco. La cosparge anche di vino. Il vino che resta lo bevono lei stessa e le sue compagne; più lei però. Andandosene la vecchia dice: «ho incatenato lingue ostili e bocche nemiche», e quando esce è ubriaca”.

ANALISI DEL RITO

Nell’antico rituale riportato, ritroviamo tutti gli ingredienti, i simboli, le immagini, i significati e i significanti che ci riconducono alla dimensione infera, al culto dei Morti e al grande potere di Tacita Muta.

Anzitutto Ovidio ci presenta un universo femminile: un cerchio di fanciulle in mezzo al quale sta una vecchia. Ci troviamo, a tutti gli effetti, davanti a quella che oggi chiameremmo Congrega, o Coven, in cui la Sacerdotessa Anziana si prepara ad officiare il rito, circondata dalle altre Streghe.

Il fatto che a celebrare il rito sia una donna anziana, conferisce al significato del rituale un forte carattere magico, misterico, ctonio e liminale (la donna anziana sta a cavallo tra la dimensione dei vivi e il Mondo dei Morti).

Anche la spazialità descritta è quella del femminile. Ovidio ci descrive a tutti gli effetti un rituale domestico, che si svolge nella spazialità della domus, dell’oikos, di cui ogni donna era sovrana e custode.

Non solo. Il rituale si svolge in un’inter-spazio preciso: la soglia, luogo liminale per eccellenza, spazio che separa il dentro dal fuori. Se poi pensiamo che siamo in contesto romano, tutto assume un significato ancora più magico e sacro, poiché per i nostri Antenati e Antenate Romani, la porta era personificazione di tutta una serie di Entità Divine. Protettore e sovrano delle ianuae, le porte, era Giano; la potestà sui cardini delle porte era invece affidata a Cardea e al suo ramo di biancospino; c’erano poi Forculus, che custodiva l’integrità della porta proteggendo il battente e le imposte; e Limentinus, che invece aveva potere di protezione sulla soglia di casa e sull’architrave; Portuno, già dio dei porti, era invece il dio della chiave e, per finire, la muta Tacita tutelava lo spazio sotto la soglia. Ed è proprio in quel punto, “là dove un piccolo topo si è scavato un passaggio segreto”, che vengono posizionati e lasciati gli ingredienti dell’incantesimo/offerta.

Tra gli ingredienti del rituale troviamo:

Tre grani d’incenso (posizionati con tre dita): inutile sottolineare la ripetizione del numero tre e del suo immenso significato esoterico. La presenza dell’incenso, da sempre usato come offerta per il Divino, serve a instaurare un rapporto tra il praticante e la Divinità. Si tratta letteralmente del segnale di fumo che viene innalzato per dichiarare la propria presenza e l’inizio dell’operazione magica. Potremmo dire che l’incenso è quell’ingrediente che allo stesso tempo costituisce l’offerta sacra e innesca l’inizio del rituale.  

Il piombo: il metallo più tenero e duttile che da sempre è stato usato nei rituali magici, soprattutto nell’oscura pratica delle defixiones, le maledizioni incise proprio su tavolette di piombo. La sua presenza in questo rituale, potrebbe farci dedurre come lo scopo di quest’operazione sia quello di imporre la propria volontà su qualcuno, siano essi Spiriti Erranti o lingue pettegole!

I fili: annodare fili, è una delle più antiche forme di stregoneria. La Magia dei Nodi non serve solo a legare ma può anche catturare, imbrigliare, bloccare e bandire ed è una consuetudine che vediamo ricorrere costantemente nelle liturgie di carattere magico.

La menola (il pesce): testimone principale di quest’incantesimo è un pesce, l’animale muto per eccellenza, cui, secondo i principi della magia simpatica, viene cucita la bocca. Inoltre, non meno significativo appare l’impiego della pece nell’operazione di chiusura della testa dell’animale, dal momento che proprio questa sostanza rappresenta un sigillante largamente impiegato in rituali di natura apotropaica.

Le fave: alimento ed elemento da sempre legato al Mondo Ctonio e considerate alimento dei Morti, specialmente in ambiente romano. A Roma, infatti, le fave come cibo dei morti, venivano impiegate nei rituali delle Lemurialia, antiche festività di carattere funerario e domestico che avevano luogo ogni anno il 9, l’11 e il 13 giugno. Per nutrire le anime affamate degli spiriti senza parenti che nei giorni della festa si sarebbero aggirati pericolosamente per la città, il pater familias procedeva a compiere un rituale notturno, ancora una volta connotato secondo una dimensione rituale di natura prevalentemente magico-apotropaica, nel corso del quale offriva ai defunti delle fave nere.

Il vino: Se il masticare fave, così come l’impiego di incenso e pece, ben si adatta a un rituale che ha a che fare con la sfera dei Morti, è con l’impiego del vino che il cerimoniale sembra caricarsi di un chiaro meccanismo di inversione. È noto, infatti, come nel mondo romano l’assunzione di vino fosse una pratica rigorosamente vietata alle donne. È dunque per mezzo di un gesto in cui appare chiaramente sottesa un’inversione dei ruoli che trova conclusione il rituale magico in onore di Tacita: oramai ubriaca (il vino scioglie la lingua della vecchia, che invece ha cucito la bocca del pesce) l’anziana officiante celebra una Dea Muta per mezzo dell’esuberanza delle proprie parole, come non manca di rimarcare lo stesso Ovidio quando, in contrapposizione al silenzio obbligato di Tacita, stigmatizza con malcelata ironia che la vecchia “però non si può dire che taccia”. Non le resta ora che declamare la formula finale, chiaramente strutturata a imitazione di una defixio, caratterizzata dal verbo vincere, e incatenare in tal modo “lingue ostili e bocche nemiche”.

Lingue e bocche che non ci è dato sapere a chi appartengono, se a Spiriti inquieti o vicini di casa impiccioni. Stando a quanto detto fino ad ora, potremmo forse immaginare trattarsi di altre bocche femminili.
Non avremo mai certezza e tutto resterà sempre avvolto dal Mistero.

L’unica certezza che abbiamo è quella per cui sembrerebbe di poter dire che, nel mondo antico, per far tacere una donna fosse necessario fare ricorso a un vero e proprio incantesimo.

IL SILENZIO PER LA STREGA CONTEMPORANEA

Per la Strega, il Silenzio non rappresenta l’assenza di suono, ma la possibilità di connettersi con la propria voce interiore e riconoscere il canto degli Spiriti.

Il Silenzio è simile a un tempo e uno spazio di attesa, che richiede pazienza e immobilità.
Quando stiamo in Silenzio e nel Silenzio, è come quando ci troviamo in quell’interstizio che esiste tra il passaggio da una stagione all'altra: non siamo più preda della morte, ma non siamo nemmeno in preda alle doglie della nascita. Non inspiriamo né espiriamo; non dormiamo né ci svegliamo, ma riposiamo tra la tomba e il grembo dove sogniamo. Sprofondiamo, letteralmente.
Ed è qui che troviamo il volto della Dea Oscura, della Dea Muta. Qui in questo limbo silente, incontriamo la Mater Obscura, quando le notti diventano sempre più lunghe. E non possiamo opporci, tutti quello che possiamo fare è sederci con Lei e soccombere.
Nel Silenzio accogliamo la stasi, la pausa. Proprio come esiste una pausa tra l'inspirazione e l'espirazione, tra una vita e l'altra, tra una nota musicale e l’altra, c'è una pausa in ogni ciclo.
Se vogliamo attingere al potere del Silenzio, dobbiamo essere disposti ad aprirci alle energie del Nord, della terra profonda, della Luna Nera e della morte stessa. Dobbiamo essere disposti e pronti a chiamare per nome e ad affrontare apertamente la nostra paura nei confronti di queste correnti del potere.
Siamo riluttanti a farlo perché ciò che sta dentro e oltre di esse è puro Mistero.
Se vogliamo incarnare il potere del Silenzio, dobbiamo portarlo dentro di noi, arrivando finanche a personificare l'Oscurità, diventando noi stessi uno spazio liminale tra il calare e il crescere, tra l'autunno e la primavera, tra la morte e la rinascita, tra l'audacia e la conoscenza, tra ogni fine e ogni inizio.

Tale è la Strega che osa andare oltre il volere, il sapere e il fare.
Tale è la Strega che in Silenzio sa stare.

Tratto da: “Luna Obscura: camminando sul Sentiero della Dea Oscura” a cure di Emiliano Russo © L’Almanacco delle Streghe

IL VOTO DEL SILENZIO

Abbracciare il Silenzio è una grande sfida, una vera prova di volontà, ma può essere un'esperienza profonda, trasformativa e spirituale.
Se vuoi entrare in connessione con la dea Tacita Muta, sperimenta il potere di quella che è stata la sua condanna, trasformata poi in segno di potere e dominio.
Organizza una giornata in cui metterai in pratica la Scelta del Silenzio, accogliendolo sia dentro che fuori di te. Questo significa non parlare, non comunicare attraverso messaggi, social media, ecc.
Significa anche immergersi nel silenzio: spegnere la televisione, il portatile, la radio, il telefono, ecc.
Passa la tua giornata in silenzio, e invece di ascoltare il frastuono delle persone e dei media, ascolta te stesso/a.
Allestisci un altare per Tacita Muta e i tuoi Antenati e Antenate. Fai loro delle offerte (potresti lasciarti ispirare dal rituale di Ovidio e offrire incenso, fave, vino…)
Lavora con la meditazione e la divinazione.
Leggi.
Riporta le tue sensazioni, i pensieri, le emozioni sul tuo diario.
A fine giornata sciogli il tuo Voto e ringrazia Tacita Muta per averti fatto conoscere i Misteri del Silenzio.

© L’Almanacco delle Streghe
photo © Lauren Wuornos