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La Sindrome del Sacerdote e della Sacerdotessa

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PREMESSA

C’è una “malattia spirituale”, sottile, subdola che si insinua nella mente di alcuni praticanti quando iniziano a lavorare con le Divinità, o anche quando diventano fondatori di una Coven, di un Cerchio, esponenti di una Tradizione formalmente riconosciuta, o semplicemente quando si espongono sul Social.

Si tratta, se vogliamo, di una “malattia” parente della “Sindrome della Vera Strega”, in questo caso è una sorta di sua evoluzione. Sto parlando della “Sindrome del Sacerdote e della Sacerdotessa”. Se la prima appartiene di più a coloro che praticano in solitaria e preferiscono un percorso eclettico (pur volendo dimostrare il prevalere della propria pratica e del proprio culto si quello altrui); la seconda appartiene più a realtà di gruppi e, talvolta, a Tradizioni formalmente riconosciute. Ma non sempre.

Ho notato, per esempio, che dilaga sempre più il professarsi Sacerdoti e Sacerdotesse di una Divinità. Personalmente non vedo nulla di sbagliato in questo. Ciascuno di noi è Sacerdote dei propri Dei e delle proprie Dee, nel momento in cui li riconosce, li conosce, li onora instaurando con loro una profonda relazione, e presta loro un servizio che parte da una profonda sfera personale, intima, che nulla ha a che fare con certificati, attestati, diplomi, titoli o cariche onorifiche.

LA SINDROME DEL SACERDOTE E DELLA SACERDOTESSA E IL DIVINO

Quando si inizia l’affascinante, intenso e profondo lavoro con una Divinità, la nostra vita è destinata cambiare. Camminare insieme a una Dea o a un Dio, ci inizia ai Misteri del Sacro e ci apre a meravigliose e sconvolgenti rivelazioni. Viaggiare con una Divinità significa viaggiare nella vera essenza del Potere. Quest’esperienza trasformatrice e immensa, talvolta si insinua tra le pieghe dell’essere del praticante in una maniera poco costruttiva e poco sana, finanche a generare quella che potremmo definire: “Sindrome del Sacerdote e della Sacerdotessa”.

Quando si incontra una Divinità a cui si sente di appartenere o che ci conferma che le apparteniamo, sorge spontaneo dedicarle il nostro tempo, le nostre attenzioni, la nostra devozione. Iniziamo a definirci suoi “figli/figlie”. Questo succede perché la nostra mente vuole cercare di umanizzare il Divino e anche di categorizzarlo secondo schemi e modelli di più facile comprensione. Ecco allora che la Dea diventa la “madre” e il Dio il “padre”. La realtà dei fatti è ben diversa. Le Energie del Divino sono assai lontane dal significato e dai ruoli in cui vogliamo confinarle. Le Divinità non sono i nostri genitori, così come loro non siamo i loro figli! Non nel senso letterale del termine.

Quando invece si prende alla lettera e troppo sul serio il processo di affiliazione verso una Divinità, allora può nascere e svilupparsi la “Sindrome del Sacerdote e della Sacerdotessa”, che è molto più comune e diffusa di quanto possa pensarsi. Questo disagio può essere descritto come una sorta di “malattia spirituale” che porta a una visione gonfiata della propria importanza e del proprio ruolo, magari nei confronti di un Cerchio di praticanti, di una Comunità, sui Social o semplicemente nei confronti del prossimo.

I sintomi di questa Sindrome sono facilmente riconoscibili: esclusività nei confronti di una Divinità (o anche di un Percorso Spirituale, o di una determinata pratica); arroganza; incapacità di accettare le critiche; esplosioni emotive; un bisogno compulsivo di controllo sugli altri; senso di frustrazione quando le persone disobbediscono o ignorano le richieste fatte o le istruzioni date loro; poca capacità di accoglienza; poca pazienza e gentilezza nei confronti di chi pone domande elementari che tendono ad annoiare e far sentire chi soffre di questa “malattia” che sta sprecando il proprio tempo; la facoltà esclusiva di poter essere i soli a nominare gruppi elitari di nuovi Sacerdoti e Sacerdotesse giudicando la vocazione altrui; lo sciorinare termini filosofici e accademici inseriti a caso qua e là in una frase per vantare un background accademico talvolta senza motivo alcuno; il non riconoscere la validità della gnosi personale altrui ad eccezione della propria che viene riportata come fosse la sola vera e autentica…

Chi soffre di questa sindrome, crede di essere talmente in contatto e a servizio della Divinità, che pensa di star facendo sulla Terra il volere della Divinità stessa. Questo si manifesta con l’impersonare e il fare propri, i tratti caratteristici di quella Divinità che diventa così giustificazione di atteggiamenti personali sbagliati e lesivi.

Immaginate per esempio una persona che decida di consacrare la propria vita a Veritas che decida di impegnarsi nel dire sempre e comunque la verità. Un impegno sicuramente nobile. Immaginate che questa persona scopra che il marito della sua migliore amica la tradisce. Immaginate anche la sua amica alle prese con un momento di fragilità personale, magari mentre è intenta a passare del tempo in ospedale per delle cure importanti, o è immersa in una situazione di lavoro stressante. Immaginate la persona Sacerdote/ssa di Verita, sentendo primario il proprio impegno verso la propria Dea, decidere di ignorare il momento delicato della propria amica, far pesare sulla bilancia il suo titolo di Sacerdote/ssa di Veritas, e recarsi così dalla sua amica per rivelarle la verità sul marito e sul suo affaire extracongiugale, del tutto incurante del fatto che la sua amica non sia pronta in quel momento a reggere e affrontare una situazione simile, ma preoccupata solo del fatto di dover fare “il volere della Dea”. Ovviamente dietro un atteggiamento e un’azione simile non c’è alcun volere divino, ma solo la manifestazione di un’Ombra personale grande come una casa!

Chi soffre di questa sindrome, al contrario di quanto possa pensare o credere, non sta affatto camminando con gli Dei, non si sta elevando, ma sta difendendo il proprio ego opponendo resistenza alla trasformazione alchemica che il lavoro con il Divino richiede e comporta.

Una delle chiavi per poter prevenire questa “malattia”, è anzitutto lavorare sul proprio ego e riuscire a ri-equilibrarlo. Molti di noi non apprezzano la propria importanza. Ci viene insegnato a essere umili e questo porta ad una falsa umiltà e a una svalutazione di noi stessi e delle nostre capacità. Dall’altro lato invece, l’arroganza ci fa essere così occupati a lustrare il nostro ego da non riuscire a vedere a un palmo dal nostro nasco, portandoci così a inciampare nei nostri stessi piedi e sembrare ridicoli. Sono entrambe situazioni di squilibrio, dove nel primo caso non siamo consapevoli del nostro valore e del nostro potere personale finendo col consegnarlo agli altri, che faranno di noi degli ottimi zerbini per le loro suole; nell’altro caso invece, entreremo nello spazio e nella vita altrui con la stessa grazie e delicatezza di una palla demolitrice, facendo a pezzi chiunque capiti sotto il nostro tiro.

Personalmente credo che coloro che sono bloccati nella fase acuta della “Sindrome del Sacerdote e della Sacerdotessa” non abbiano voglia di crescere, di evolvere, di accettare le proprie responsabilità. Le vittime di questa “malattia” hanno sempre una scusa o qualcun altro da incolpare.

Per cercare di guarire allora, bisogna anzitutto riconoscere che non si possono affrontare i problemi se prima non si ammette riconosce di avere un problema. La guarigione della “Sindrome del Sacerdote e della Sacerdotessa”, richiede il nostro essere disposti a essere vulnerabili e a scusarci per i nostri errori, impegnandoci a cambiare quegli atteggiamenti che siamo arrivati a considerare come incarnazione del tratto divino, quando invece solo quanto di più basso, fragile e umano potevamo dimostrare.

Riconoscere tutto questo ci porterà a sentirci più a nostro agio con noi stessi, equilibrerà il nostro ego e allora sì che potremo impegnarci in un cammino onesto e autentico sul Sentiero degli Dei, viaggiando sempre un passo dietro di Loro, qualche volta fianco a fianco, ma mai un passo davanti al Divino.

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